Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2022

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Il 25 novembre si celebra la giornata internazionale contro la violenza sulle donne e il femminicidio.

Il perchè di questa data ve lo abbiamo già raccontato un paio di anni fa, potete leggere il post cliccando qui.

Non c’è purtroppo bisogno di spiegare invece perchè ci sia la necessita urgente e inderogabile di lottare contro la violenza sulle donne.

I dati forniti dall’Istat, che oggi dedica una mattina di studio sull’argomento, ci restituiscono l’immagine di un’Italia primordiale, misogina e dolorosamente violenta.

le violenze denunciate e l’underreporting

I dati riguardato le chiamate effettuate al numero  antiviolenza 1552, attivato dal Dipartimento per le Pari Opportunità,  fino al terzo trimestre del 2022.

Prima di commentare i numeri vogliamo ricordare che questi dati statistici non registrano la totalità dei casi di violenza. Registrano  solamente quelli che sono stati denunciati al numero antiviolenza. Anche per la violenza contro le donne pesa purtroppo il fenomeno dell’undereporting.

Molti sono i motivi per cui non si denuncia. L’importante è non giudicare mai chi non denuncia. Bisogna prodigarsi invece affinché chi ha difficoltà a denunciare non si senta mai sola ma possa essere coinvolta in una rete di solidarietà, aiuto e comprensione.

Durante il lockdown le telefonate sono raddoppiate

Il primo elemento che risalta dei dati forniti dall’Istat è il raddoppio, durante  il lockdown, del numero di donne che hanno subito violenza,  che sono passate dalle 2.103 del 2020 alle 4.310 del 2021, per poi scendere di nuovo nel primo trimestre di quest’anno,  rimanendo però su numeri più alti rispetto a quelli dello stesso periodo nel 2018 anno da cui parte il resoconto.

Sui dati forniti stamane dall’Ista è emerso che, prendendo in considerazione il numero di telefonate,  rispetto al secondo e al terzo trimestre 2021, nei corrispondenti trimestri del 2022 si è registrato un calo delle chiamate valide (da 8.508 si passa a 7.562, -11% per il secondo trimestre; da 8.217 a 7.177, -12,6% per il terzo trimestre);

la provenienza geografica delle telefonate

Le chiamate più numerose sono venute dalla Lombardia (495 chiamate registrate solamente nel primo trimestre nel 2022) dal  Lazio (388 chiamate) e Campania (295).
In coda  Basilicata (16), Molise (13) e Valle D’Aosta (3).

l’identità di genere delle persone bersaglio di violenza e di chi ha commesso violenze

Il divario di genere tra persone bersaglio di violenza è tutto sbilanciato verso le donne, 97,9%, contro un timido 2,1 % di uomini colpiti dalla violenza, mentre a commettere la violenza, fisica e psicologica sono gli uomini  nel 90,6 % dei casi.

La relazione tra le persone colpite da violenza e chi la commette 

Gli uomini che commettono violenza non sono estranei ma uomini di famiglia,  mariti (31%), conviventi  (13,9%) ex partner (10,9%) ma anche genitori (5,3%), i figli (4,3%) e i fratelli (2,7%) della donna bersaglio di violenza, contro un 9,6% di donne che agiscono la violenza su altre donne, siano esse compagne, madri, figlie o sorelle.

dati anagrafici

La donna bersaglio di violenza nel 21,7%  ha un’età compresa tra  i  35 e i 44 anni,   nel 17,8% dei casi un’età compresa tra i 45 e i 54 anni mentre l’età degli uomini aggressori sta  nella quasi metà dei casi tra i 35 e i 45 anni (43,9%).

Le donne bersaglio di violenza che  hanno segnalato gli abusi nel primo trimestre di quest’anno non hanno figli o figlie nel 37,8% dei casi, hanno figli e figlie minori nel 30,1%, mentre le donne con figli e figlie maggiorenni sono il 23,9%.

Il 34,4% delle donne che hanno chiamato il 1552 hanno dichiarato che i figli e le figlie  assistono alle violenze ma non ne subiscono,  il 13,2% che ne sono invece vittima a loro volta mentre nel 32,1% dei casi  figli e figlie non assistono e non  subiscono  violenza.

Le donne che si sono rivolte al numero antiviolenza dicono di provare un serio timore per la propria incolumità (23,8%), di essere soggette a forti stati di ansia (20,4%) e di soggezione nei confronti di chi le aggredisce (23,9%), col quale sono spesso e volentieri  costrette a convivere.

La violenza fisica è quella più denunciata

La violenza fisica riguarda il  44,1% dei casi denunciati, quella psicologica il  34,1%, seguono le violenze sessuali, commesse non solamente da estranei ma anche nell’ambito familiare (6,1%),  minacce (5,8%), molestie sessuali (1,5%) e violenze economiche (1,3%).

Solo il (9,7%) delle donne non si ritengono in pericolo mentre il 3,5%  ritiene di essere in pericolo di vita e teme  per l’incolumità dei propri cari (1,3%).

Il 50% delle donne che si rivolgono al 1552 non sono economicamente autonome e dipendono dai loro aggressori.

la frequenza delle violenze

Le violenze perpetrate non si limitano solamente a un episodio (4,3%), ma vengono ripetute per mesi (22,7%) e anche per anni (56,5%).

La violenza contro le donne  continua a essere un fenomeno preoccupante non solamente in Italia ma in tutto il mondo: una donna su tre subisce qualche tipo di violenza di genere e ogni 11 minuti una donna o una ragazza viene uccisa da un familiare.

Secondo dati dell’UNIFEM (il fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne), una donna su tre è stata violentata, picchiata, costretta all’atto sessuale, abusata almeno una volta nella sua vita.
Secondo l’OMS e la Banca Mondiale, la violenza domestica è la causa principale di morte o di lesioni gravi per donne tra 16 e 44 anni: più importante del cancro, della malaria o degli incidenti stradali.

Un fenomeno da contrastare in tutti i modi possibili.

La barbarie deve essere fermata, qui, adesso, ora.

la petizione dell’unicef

L’UNICEF Italia promuove la petizione “No alla Violenza di genere: insegniamolo tra i banchi”, nella quale chiede al Ministero dell’Istruzione e del Merito di promuovere la  parità di genere e la prevenzione della violenza di genere nelle scuole come previsto nel Piano Nazionale d’Azione per l’Infanzia e l’Adolescenza e  nel Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne, di cui anche l’UNICEF è promotore.

Per aderire alla petizione: www.unicef.it/firma

Lorenzo Jovanotti si dice UNA poeta!!!

 

 

 

 

 

 

 

 

Durante la quarta serata di Sanremo 2022, l’ospite Jovanotti, dopo il duetto con Gianni Morandi, ritorna sul palco dell’Ariston per un intervento durante il quale  recita i versi della poesia di Mariangela Gualtieri Bello mondo.

Sanremo 2022

Jovanotti chiama Gualtieri, com’è giusto che sia, poeta e non poetessa, facendo il paragone con la parola atleta dicendo che sono parole senza genere. 

Fin qui tutto bene, anzi, benissimo. 

Purtroppo, per eccesso di zelo, quando chiama Gualtieri poeta, Jovanotti usa l’articolo  al maschile e dice è un grandissimo poeta.

Adesso è vero che la parola poeta, come atleta, è  senza genere o meglio di genere comune, e non cambia desinenza per fare il maschile o il femminile.
La lingua italiana però richiede sempre un accordo dei sostantivi sul genere grammaticale con gli articoli gli aggettivi i verbi.

Per cui dirò Montale è un grandissimo poeta  e Gualtieri è una grandissima poeta, proprio come Elisa Balsamo è UNA atleta. 

Il maschile inclusivo

Vien da chiedersi  perché Jovanotti abbia declinato al maschile la parola poeta quando la grammatica italiana non solo gli permette ma lo obbliga in questo caso a usare il genere grammaticale femminile.

Forse, ma non potendolo chiedere al diretto interessato la nostra rimane una speculazione, perché, abituate e abituati al maschile inclusivo, anche dinanzi a un nome ambigenere, il maschile ci appare istintivamente come il genere comune. Come se, togliendo quel suffisso derivativo a poet-essa la parola che rimane, poeta, non possa che essere maschile.

E invece no.

Il femminile dei nomi di professione.

La lingua italiana permette il femminile per tutti i nomi di professione anche quelli di genere comune, sia quelli che al plurale si declinano, com’è il caso di poeta e atleta (che al plurale fanno, rispettivamente, poet-i  poet-e e atlet-i  atlet-e) sia per quei nomi pienamente ambigenere come giudice, che resta invariato anche al plurale (i giudici le giudici)  o vigile.

Se, sbagliando la grammatica,  chiamiamo Mariangela Gualtieri UN poeta, tanto vale chiamarla poetessa come crede Cecilia Robustelli che è in disaccordo con Alma Sabatini che è stata la prima a suggerirne l’uso.

Le ragioni di chi è contrario…

C’è chi dice che è una questione di abitudine, visto che fino a poco tempo fa le donne non accedevano a certe professioni viene  spontaneo chiamare avvocato anche una donna.
Viene da chiedersi allora perché non si chiami infermiera anche un uomo visto che gli uomini  prima del 1971 non potevano accedere, per legge, a quella professione…

C’è chi per i nomi di professione crede di dire bene quando ragiona che il termine si riferisce alla funzione e non già all’identità di genere di chi la esercita.

Per cui dovremmo dire il sindaco Virgina Raggi, il ministro Mara Carfagna.

Però non ci sogneremmo mai di dire il maestro Carla, il parrucchiere Serena, per le quali usiamo i regolari femminili, che esistono anche per sindaco e ministro.

Evidentemente queste resistenze si basano su un orecchio non solamente sessista ma anche classista che non trasale a sentire maestra ma lo fa per ministra, si adonta per sindaca ma non per monaca.

Un orecchio di parte, un orecchio da rieducare.

…o contraria.

Anche quello di molte donne purtroppo,   che, sentendosi chiamare con la carica al femminile, storcono il naso, ritenendolo meno autorevole del maschile, come fu per Camusso che si faceva chiamare segretario della CGIL  o Beatrice Venezi che, a Sanremo 2021, diceva di essere direttore d’orchestra.
O, più recentemente, Maria Sole Ferrieri Caputi che, quando si sente chiamare arbitra, teme la si voglia sminuire rimarcando che lei è una donna.

Una antica abitudine al patriarcato fa pensare a queste donne che la vera conquista sia di avere accesso alle cariche maschili nonostante il loro essere donna, senza capire minimamente che la vera conquista la si fa anche col nome.

L’esclusione delle donne.

Finché le donne non avranno anche nel nome il riconoscimento delle professioni che con tanta fatica sono riuscite a conquistare resteranno invisibili e nascoste dietro un nome maschile che si pretende neutro, mentre in italiano il neutro non esiste.

Perché in un mondo detto sempre e solamente al maschile, le donne non hanno la possibilità di rispecchiarsi, rimanendo invisibili a se stesse e al mondo, in quanto innominate. E dal non detto all’inesistente il passo è breve.

Naturalmente diciamo questo per sensibilizzare le donne non per imporre loro alcun nome, per cui chiameremo Camusso, Venezi e Ferrieri Caputi coi nomi che si sono scelte, perché il diritto all’autodeterminazione è inalienabile anche quando esercita una scelta sessista.

Ci auguriamo siano loro a capire che il nome di professione al femminile non le rispedisce in serie B ma le annovera finalmente in una serie A dove hanno la stessa visibilità dei colleghi.

Apprezziamo dunque le buone intenzioni di Jovanotti che, però, si sa dove conducono…

Per cui, ribadiamo, se chiamiamo Mariangela Gualtieri UN poeta, sbagliando la grammatica, tanto vale chiamarla poetessa.

 

Italia 2020: 1303 nuove diagnosi di positività all’hiv

Come consuetudine riportiamo, in occasione della giornata mondiale della lotta contro l’Aids, i dati dell’Istituto Superiore della Sanità relativi al 2020.

Le diagnosi per l’anno 2020

Nel 2020 le nuove diagnosi di sieropositività all’HIV sono state 1.303, pari a una incidenza di 2,2 nuove diagnosi ogni 100.000 residenti,  inferiore alla media dei Paesi dell’Unione Europea che è di 3,3 casi per 100.000 residenti.

Nel 2020 le incidenze più alte sono state registrate in Valle d’Aosta, Liguria, Provincia Autonoma di Trento e Lazio.

Dal 2012 (anno in cui i dati sulle nuove diagnosi di infezione da HIV hanno una copertura nazionale) in Italia si osserva una diminuzione delle nuove diagnosi HIV.

Dai 4.162 nuovi casi del 2012 siamo scesi ai 3.578 nel 2017 e ai 2.531 nel 2019.

Nel 2020 l’88,1% delle nuove diagnosi di infezione da HIV è attribuibile a rapporti sessuali non protetti da preservativo.

Delle 1303 persone  che hanno scoperto di avere l’Hiv nel 2020, il 70,9% sono maschi.

Di questi il 45,7% sono MSM maschi che fanno sesso coi maschi e 25,2% sono maschi etero.

I maschi che fanno sesso ci maschi al primo posto per il secondo anno consecutivo.

L’espressione maschi che fanno sesso con maschi (MSM) descrive un comportamento, non un orientamento sessuale.
Include tutti gli uomini – gay, bisessuali o eterosessuali – che hanno rapporti sessuali con altri uomini.

Per il secondo anno consecutivo la quota di nuove diagnosi HIV attribuibili a maschi che fanno sesso con maschi ha superato quella dei rapporti eterosessuali.  Nel 2020 la percentuale di MSM è del 45,7% (nel 2019 era di 42,2) mentre quella etero è rimasta pressoché invariata  42,4% nel 2020 ( 25,2% maschi e 17,2  femmine) mentre nel 2019 era al  42,3  (25,2% maschi e 17,1 femmine).

L’età mediana è di 40 anni sia per i maschi che per le femmine.

L’incidenza più alta è stata osservata tra le persone di 25-29 anni (5,5 nuovi casi ogni 100.000 residenti) e di 30-39 anni (5,2 nuovi casi ogni 100.000 residenti).
In queste fasce di età l’incidenza nei maschi è circa 4 volte superiore a quelle delle femmine.

Late presenters

Il dato dolente resta quello della quota di persone con diagnosi tardiva di sieropositività all’hiv (60%),  con bassi CD4 o in AIDS conclamato (late presenters) contro una media europea del 51%.
In altre parole, hanno scoperto di avere contratto il virus troppo tardi con rischi  per la loro  salute. 

Nuovi casi di Aids

Nel 2020 sono stati  352 i nuovi casi di Aids, con un’incidenza di 0,7 nuovi casi per 100.000 residenti.

L’80% di questi casi è costituito da persone che hanno scoperto di essere Hiv positive nei sei mesi precedenti alla diagnosi di Aids.

Rimane stabile il numero di decessi in persone con Aids.

L’influenza dell’emergenza Covid-19 sui dati Hiv. 

Nel 2020 c’è stato un calo del 56% delle nuove diagnosi HIV rispetto ai tre anni precedenti.
Tale diminuzione è risultata più elevata nei giovani, nel Nord Italia e minore al Centro.
Le persone Late presenters hanno mostrato un decremento meno rilevante rispetto al resto delle diagnosi.

Il fatto che la  diminuzione di nuove diagnosi di Hiv è maggiore nelle Regioni del Nord, che sono state colpite più duramente dalla pandemia di COVID-19, e che si ridotto il numero di persone che non avevano un sistema immunitario compromesso (CD4 > 350) e che quindi avevano presumibilmente una minore urgenza di eseguire il test, potrebbero suggerire che almeno una parte del calo di nuove diagnosi osservato nel 2020, sia collegato alle conseguenze della pandemia di COVID-19.

Solamente nei prossimi mesi potremo verificare concretamente questa ipotesi.

Anche in tempo di Covid l’uso del profilattico difende dall’hiv e dalle altre infezioni sessualmente trasmesse.  

In occasione della Giornata Mondiale di Lotta contro l’AIDS, oggi, 1 dicembre 2021, il Servizio di counselling Telefono Verde AIDS e Infezioni Sessualmente Trasmesse – 800861061 dell’Istituto Superiore di Sanità sarà attivo dalle 10.00 alle 18.00.

Triangoli rosa una memoria disattesa

Memoriale a Berlino per le vittime omosessuali del nazismo

 

 

La storia delle persecuzioni naziste contro gli uomini omosessuali è stata raccontata e studiata tardivamente.

I triangoli rosa

Gli uomini omosessuali o a vario titolo considerati effemminati, femminili o, ante litteram, transessuali (il termine viene coniato solamente nel 1949) sono condotti da subito nei campi di concentramento:  nel 1933 a Fuhlsbutte, nel 1934 arrivarono a Dachau e a Sachsenhausen.
Centinaia furono deportati in occasione delle Olimpiadi di Berlino del 1936.

Nei campi di concentramento  sono riconoscibili  per un triangolo rosa, più grande degli altri simboli in uso, perché gli omosessuali si dovevano vedere da lontano.

Nei lager i triangoli rosa sono sottoposti a esperimenti scientifici per essere riconvertiti all’eterosessualità, tramite letali dosi di testosterone, oppure sottoposti a riassegnazione chirurgica del sesso, oppure alla castrazione.
Molti internati si sottoposero alla castrazione volontariamente quando girarono voci, infondate, che la castrazione li avrebbe resi liberi.

Il 60% dei triangoli rosa non sopravvisse***.

Le donne omosessuali

Anche le donne omosessuali furono internate nei campi di concentramento.
Non in quanto lesbiche bensì come persone asociali contraddistinte da un triangolo nero.
Questa condanna ufficiosa del lesbismo si basava sulla constatazione che, a differenza degli uomini, la cui omosessualità pregiudicava le loro capacità procreative, le donne omosessuali erano ancora capaci di dedicarsi a rapporti sessuali etero e dare figli, e figlie, allo Stato.

Le prime testimonianze

Il primo a rompere il silenzio e raccontare quanto successe  alle persone omosessuali nei lager fu Josef Kohout,  all’epoca dei fatti uno studente universitario poco più che ventenne, internato nel 1940 a causa  della relazione col figlio di un gerarca nazista.

Kohout racconta la sua esperienza di internamento nel libro  Die Männer mit dem rosa Winkel  t.l Gli uomini con il triangolo rosa sotto lo pseudonimo di Heinz Heger, pubblicato nel 1972.

Il libro fa scalpore perché la persecuzione degli uomini omosessuali era all’epoca del tutto ignota.

Perché?

Il paragrafo 175

A differenza delle altre vittime del nazismo, la cui condizione non era illegale prima del Reich, l’omosessualità era punita per legge già prima della presa del potere di Hitler.

Nella repubblica di Weimar gli atti omosessuali, anche tra adulti consenzienti, erano puniti fino a sei mesi di carcere dal paragrafo 175 del codice penale, che aveva origini abbastanza antiche (l’art. 116 della Costitutio Criminali Carolina, promulgata dall’imperatore Carlo V nel 1532).

ll Reich aveva inasprito la pena detentiva già esistente,  portandola da sei mesi a cinque anni. Aveva anche aggiunto un’aggravante (il paragrafo 175a) che puniva  i rapporti omosessuali con minorenni, con sottoposti (dipendenti lavorativi) e gli stupri, con una pena detentiva che poteva arrivare a 10 anni.

Un silenzio imposto 

Per questo motivo storico agli omosessuali internati non viene riconosciuto alcun indennizzo.
Molti dei sopravvissuti ai campi di concentramento che avevano delle condanne carcerarie in sospeso, vengono anzi ricondotti in carcere a scontare la pena detentiva, nonostante gli anni trascorsi nei lager.

Gli uomini omosessuali reduci dei campi di concentramento furono di fatto costretti a tacere il vero motivo della loro prigionia se non volevano rischiare una condanna e il carcere.

L’omocausto continua

Quello che Massimo Consoli chiamò Omocausto  con un neologismo acuto quanto doloroso continuò così anche dopo la fine della guerra.

Le sorti degli uomini omosessuali furono però molto diverse nelle due Germanie che si costituirono nel 1949.

Nella Germania dell’Est…

La Repubblica Democratica Tedesca, quella del blocco russo, d’oltrecortina, volgarmente detta Germania dell’Est, ripristinò nel 1949 il paragrafo della repubblica di Weimar  (mentre il 175a rimase in vigore).

Già nel 1957, pur rimanendo formalmente in vigore, l’effetto penale dei paragrafi 175 e 175a venne sospeso perché gli atti omosessuali  non costituivano un pericolo per la società socialista*.

…e in quella dell’Ovest

Nella  Repubblica Federale di Germania (RFT) detta volgarmente Germania dell’ovest, quella libera e democratica dell’Europa capitalista e della Nato, si preferì invece mantenere  il paragrafo inasprito del Reich.
Il motivo è  specificato in una sentenza del 1957 i paragrafi 175 e 175a non erano  influenzati  dall’ideologia nazionalsocialista tanto da dover essere aboliti in un libero stato democratico.

Tra il 1949 e il 1969  nella RTF vennero incriminati più di 50 mila uomini omosessuali**.
Ancora negli anni 60 venivano praticate castrazioni chimiche dalle dubbie basi scientifiche.

Nel 1969 il paragrafo fu abolito e rimase in vigore solamente il 175a. Il  paragrafo  condannava i rapporti sessuali con ragazzi al di sotto dei 21 anni, la prostituzione maschile con uomini, i rapporti sessuali imposti da contingenze di dipendenza lavorativa.
L’età fu abbassata ai 18 anni nel 1973. L’età del consenso per  i rapporti sessuali etero era invece a 14 anni.

Quando nel 1989 le due Germanie si riunificarono, nella ex Germania dell’Est, l’omosessualità tornò ad essere penalizzata, secondo l’ottica del paragrafo 175a, che venne abolito solamente nel 1994****.

 

I risarcimenti, finalmente

Nel 2002, la Germania annulla le condanne inflitte durante il Terzo Reich tramite il paragrafo 175.
Il provvedimento, però, non si applicava per le condanne precedenti e successive al nazismo. Bisognerà aspettare il 2017 perché lo stato tedesco riabiliti la fedina penale di tutte persone condannate per il loro orientamento sessuale.

Le persone omosessuali furono colpite dalla ferocia nazista assieme a tante altre. Clicca qui per leggere l’elenco completo delle vittime dell’Olocausto.

Monumento dedicato alle vittime omosessuali del nazifascimo presente nel parco Tiergarten di Berlino

 

*Quando la Repubblica Democratica Tedesca approvò il proprio codice penale, il 1º luglio 1968, il paragrafo 151 StGB-DDR,  prevedeva una pena  fino a tre anni di reclusione o di libertà condizionata, nel caso di un maggiorenne  che avesse rapporti sessuali con un minorenne. La legge era applicata anche nel caso di rapporti tra donne e ragazze.

** Ancora nel 1962 si giustificava il mantenimento del paragrafo 175 con queste parole: Riguardo all’omosessualità maschile, il sistema legale deve, più che in altre aree, erigere un baluardo contro la diffusione di questo vizio, che altrimenti rappresenterebbe un serio pericolo per la salutare e naturale vita delle persone.

*** Veronica Fernandes Le altre vittime dell’Olocausto

**** Tonia Mastrobuoni  Germania, governo riabilita gay condannati in base a legge nazista La Repubblica