Sabato 20 novembre si svolgerà a Roma l’annuale Trans Freedom March, giunta all’ottava edizione e che quest’anno assume i toni della protesta.
Cosa e perché
La marcia nasce nel 2014, organizzata e promossa dal Coordinamento Torino Pride e da alcune associazioni torinesi, in corrispondenza del Transgender Day of Remembrance, ossia il giorno della commemorazione delle persone uccise in tutto il mondo per il fatto di essere trans* (transgender e transessuali).
A marciare sono soprattutto persone T (ma non solo) che vogliono essere visibili in una società che preferisce nasconderle, ignorarle, dimenticarle, o, al contrario, esporle solo per deriderle.
Identità negata
La negazione delle identità T ha una storia molto lunga, in Italia culminata col recente affossamento del DDL Zan in Senato, indecorosamente festeggiato nella stessa aula della votazione e di cui il tema dell’identità di genere è stato uno dei punti che ha sollevato le maggiori ostilità.
Per questa ragione è stata scelta Roma come luogo della marcia 2021, per arrivare alle porte di quei palazzi di potere dove è stata scritta tale pagina di regresso che, a dir poco, ha suscitato la rabbia dei soggetti direttamente interessati e non solo.
Identità di genere
Sebbene l’identità di genere sia un concetto già esistente nell’ordinamento giuridico italiano, sembra si voglia fingere che non esista e spesso se ne giustifica il rifiuto con una presunta lotta alla leggendaria “teoria gender” di cui non parla nessuno tranne coloro che dicono di combatterla.
Ma la negazione di queste identità si manifesta in molti modi: dalla scarsa preparazione del personale sanitario in presenza di pazienti T che non si sa in che reparto ricoverare, a studenti e studentesse cui non è concessa la carriera di studi con il nome d’elezione e si sentono chiamare all’appello col nome anagrafico, rivelando pubblicamente la loro realtà, fino ai casi infelici di persone T decedute il cui nome anagrafico è stampato sui manifesti funerari affissi per le strade e incisi per sempre sulle loro lapidi, come ultima beffa verso una vita mai accettata.
Fuori i nomi
Durante la Trans Freedom March vengono letti i nomi delle persone T uccise nell’ultimo anno, una lista sempre abbastanza lunga da non potersi permettere di ignorare. Si accendono candele in omaggio alla memoria di queste persone a cui è stata tolta la vita per odio, per pregiudizio, per vergogna.
E alcune delle mani che si macchiano di queste morti sono, con una certa frequenza, le mani di chi avrebbe dovuto, se non amare, quantomeno rispettare: i partner e la famiglia.
Ci vediamo lì
Il corteo partirà da Piazza della Repubblica alle 17 di Sabato 20 novembre e proseguirà per le vie della capitale fino a concludersi a Piazza Vittorio Emanuele, dove si potranno ascoltare gli interventi delle associazioni partecipanti.
Memoriale a Berlino per le vittime omosessuali del nazismo
La storia delle persecuzioni naziste contro gli uomini omosessuali è stata raccontata e studiata tardivamente.
I triangoli rosa
Gli uomini omosessuali o a vario titolo considerati effemminati, femminili o, ante litteram, transessuali (il termine viene coniato solamente nel 1949) sono condotti da subito nei campi di concentramento: nel 1933 a Fuhlsbutte, nel 1934 arrivarono a Dachau e a Sachsenhausen.
Centinaia furono deportati in occasione delle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Nei campi di concentramento sono riconoscibili per un triangolo rosa, più grande degli altri simboli in uso, perché gli omosessuali si dovevano vedere da lontano.
Nei lager i triangoli rosa sono sottoposti a esperimenti scientifici per essere riconvertiti all’eterosessualità, tramite letali dosi di testosterone, oppure sottoposti a riassegnazione chirurgica del sesso, oppure alla castrazione.
Molti internati si sottoposero alla castrazione volontariamente quando girarono voci, infondate, che la castrazione li avrebbe resi liberi.
Il 60% dei triangoli rosa non sopravvisse***.
Le donne omosessuali
Anche le donne omosessuali furono internate nei campi di concentramento.
Non in quanto lesbiche bensì come persone asociali contraddistinte da un triangolo nero.
Questa condanna ufficiosa del lesbismo si basava sulla constatazione che, a differenza degli uomini, la cui omosessualità pregiudicava le loro capacità procreative, le donne omosessuali erano ancora capaci di dedicarsi a rapporti sessuali etero e dare figli, e figlie, allo Stato.
Le prime testimonianze
Il primo a rompere il silenzio e raccontare quanto successe alle persone omosessuali nei lager fu Josef Kohout, all’epoca dei fatti uno studente universitario poco più che ventenne, internato nel 1940 a causa della relazione col figlio di un gerarca nazista.
Kohout racconta la sua esperienza di internamento nel libro Die Männer mit dem rosa Winkel t.l Gli uomini con il triangolo rosa sotto lo pseudonimo di Heinz Heger, pubblicato nel 1972.
Il libro fa scalpore perché la persecuzione degli uomini omosessuali era all’epoca del tutto ignota.
Perché?
Il paragrafo 175
A differenza delle altre vittime del nazismo, la cui condizione non era illegale prima del Reich, l’omosessualità era punita per legge già prima della presa del potere di Hitler.
Nella repubblica di Weimar gli atti omosessuali, anche tra adulti consenzienti, erano puniti fino a sei mesi di carcere dal paragrafo 175 del codice penale, che aveva origini abbastanza antiche (l’art. 116 della Costitutio Criminali Carolina, promulgata dall’imperatore Carlo V nel 1532).
ll Reich aveva inasprito la pena detentiva già esistente, portandola da sei mesi a cinque anni. Aveva anche aggiunto un’aggravante (il paragrafo 175a) che puniva i rapporti omosessuali con minorenni, con sottoposti (dipendenti lavorativi) e gli stupri, con una pena detentiva che poteva arrivare a 10 anni.
Un silenzio imposto
Per questo motivo storico agli omosessuali internati non viene riconosciuto alcun indennizzo.
Molti dei sopravvissuti ai campi di concentramento che avevano delle condanne carcerarie in sospeso, vengono anzi ricondotti in carcere a scontare la pena detentiva, nonostante gli anni trascorsi nei lager.
Gli uomini omosessuali reduci dei campi di concentramento furono di fatto costretti a tacere il vero motivo della loro prigionia se non volevano rischiare una condanna e il carcere.
L’omocausto continua
Quello che Massimo Consoli chiamò Omocausto con un neologismo acuto quanto doloroso continuò così anche dopo la fine della guerra.
Le sorti degli uomini omosessuali furono però molto diverse nelle due Germanie che si costituirono nel 1949.
Nella Germania dell’Est…
La Repubblica Democratica Tedesca, quella del blocco russo, d’oltrecortina, volgarmente detta Germania dell’Est, ripristinò nel 1949 il paragrafo della repubblica di Weimar (mentre il 175a rimase in vigore).
Già nel 1957, pur rimanendo formalmente in vigore, l’effetto penale dei paragrafi 175 e 175a venne sospeso perché gli atti omosessuali non costituivano un pericolo per la società socialista*.
…e in quella dell’Ovest
Nella Repubblica Federale di Germania (RFT) detta volgarmente Germania dell’ovest, quella libera e democratica dell’Europa capitalista e della Nato, si preferì invece mantenere il paragrafo inasprito del Reich.
Il motivo è specificato in una sentenza del 1957 i paragrafi 175 e 175a non erano influenzati dall’ideologia nazionalsocialista tanto da dover essere aboliti in un libero stato democratico.
Tra il 1949 e il 1969 nella RTF vennero incriminati più di 50 mila uomini omosessuali**.
Ancora negli anni 60 venivano praticate castrazioni chimiche dalle dubbie basi scientifiche.
Nel 1969 il paragrafo fu abolito e rimase in vigore solamente il 175a. Il paragrafo condannava i rapporti sessuali con ragazzi al di sotto dei 21 anni, la prostituzione maschile con uomini, i rapporti sessuali imposti da contingenze di dipendenza lavorativa.
L’età fu abbassata ai 18 anni nel 1973. L’età del consenso per i rapporti sessuali etero era invece a 14 anni.
Quando nel 1989 le due Germanie si riunificarono, nella ex Germania dell’Est, l’omosessualità tornò ad essere penalizzata, secondo l’ottica del paragrafo 175a, che venne abolito solamente nel 1994****.
I risarcimenti, finalmente
Nel 2002, la Germania annulla le condanne inflitte durante il Terzo Reich tramite il paragrafo 175.
Il provvedimento, però, non si applicava per le condanne precedenti e successive al nazismo. Bisognerà aspettare il 2017 perché lo stato tedesco riabiliti la fedina penale di tutte persone condannate per il loro orientamento sessuale.
Le persone omosessuali furono colpite dalla ferocia nazista assieme a tante altre. Clicca quiper leggere l’elenco completo delle vittime dell’Olocausto.
Monumento dedicato alle vittime omosessuali del nazifascimo presente nel parco Tiergarten di Berlino
*Quando la Repubblica Democratica Tedesca approvò il proprio codice penale, il 1º luglio 1968, il paragrafo 151 StGB-DDR, prevedeva una pena fino a tre anni di reclusione o di libertà condizionata, nel caso di un maggiorenne che avesse rapporti sessuali con un minorenne. La legge era applicata anche nel caso di rapporti tra donne e ragazze.
** Ancora nel 1962 si giustificava il mantenimento del paragrafo 175 con queste parole: Riguardo all’omosessualità maschile, il sistema legale deve, più che in altre aree, erigere un baluardo contro la diffusione di questo vizio, che altrimenti rappresenterebbe un serio pericolo per la salutare e naturale vita delle persone.
Era il 13 gennaio del 1998 quando Alfredo Ormando, poeta, siciliano e gay, si diede fuoco a Piazza San Pietro per denunciare l’omofobia delle gerarchie vaticane.
Alfredo Ormando
Ormando nasce a San Cataldo, cittadina di 20.000 abitanti, il 15 Dicembre del 1958, in una famiglia numerosa, come erano ancora le famiglie negli anni ’50. Omosessuale e cattolico Alfredo appena può se ne va da casa, resta due anni in un seminario francescano, come novizio.
Poi lo studio, l’amata scrittura, le difficoltà ad essere pubblicato, il pubblico ludibrio che non lo abbandona mai.
Alfredo sente la profonda ingiustizia della società italiana e cattolica, nei confronti di se stesso e di tutte le persone come lui.
Il suicidio
Inizia a coltivare l’idea del suicidio come gesto estremo di protesta.
Mi rendo conto che il suicidio è una forma di ribellione a Dio, ma non riesco più a vivere, in verità sono già morto, il suicidio è la parte finale di una morte civile e psichica scriveva ad un amico mentre pensava al suo gesto di ribellione.
Di ribellione, sì.
Non il gesto di un debole o di un disperato, come si è scritto, anche in buona fede.
Piuttosto il gesto profondo di chi, per coerenza, non può rimanere in silenzio dinanzi i soprusi cui assiste e vive sulla prova pelle come commenterà Delia Vaccarello, in un bellissimo articolo per l’Unità, nel 2004.
Le sue parole
Penseranno che sia un pazzo perché ho deciso Piazza San Pietro per darmi fuoco, mentre potevo farlo anche a Palermo. Così scrive al fratello1. Spero che capiranno il messaggio che voglio dare: è una forma di protesta contro la Chiesa, che demonizza l’omosessualità, demonizzando nel contempo la natura, perché l’omosessualità è sua figlia.
Alfredo Ormando muore 10 giorni dopo essersi dato fuoco, in seguito alle ustioni di terzo grado che ha su oltre il 90% del corpo, nell’ospedale Sant’Eugenio.
La Giornata mondiale del dialogo fra religione e omosessualità.
L’anno dopo la sua morte Arcigay roma organizza una giornata di commemorazione intitolandola Giornata internazionale contro la discriminazione antiomosessuale su base religiosa.
La giornata cambierà denominazione qualche anno dopo, diventando la meno aggressiva Giornata mondiale del dialogo fra religione e omosessualità con tanto di sito dedicato, che non viene più aggiornato da diversi anni.
La memoria va sempre coltivata, sempre.
D’altronde da soli e da sole poco si può, se la volontà c’è solamente da una parte il dialogo si trasforma in un in un triste monologo.
In questi tempi di crisi e di Covid anche Gaynet Roma vuole celebrare la memoria di Alfredo e l’olocausto che ci ha donato, nella speranza che un giorno non risulti vano.
Rita Hester era una donna nera e trans di 35 anni. Era perché Rita è stata uccisa con 20 coltellate, il 28 Novembre del 1998, nell’appartamento dove viveva, nel quartiere Allston di Boston.
L’omicidio, un chiaro delitto d’odio, è tuttora senza colpevole.
La polizia non pulisce le scene del crimine, così lo hanno fatto le sorelle e le amiche di Rita, evitando di farlo fare alla madre. Ci sono delle ditte specializzate che assolvono questo compito ma la famiglia di Rita non poteva permettersene il costo.
Quando i giornali parlarono dell’omicidio suo omicidio si riferirono a lei al maschile, secondo una orrenda pratica transfobica che perdura anche al giorno d’oggi.
Si ricorda proditoriamente sempre il sesso di nascita e non quello elettivo per cui si è fatto tanto, tutto, per transitarvi, per esservi.
Gwendolyn Ann Smith, fotografata da Tristan Crane
Per reagire a questa cancellazione della sua identità di donna trans l’attivista trans Gwendolyn Ann Smith omaggiò la memoria di Rita e di tutte le altre vittime della violenza transfobica istituendo il Transgender Day of Remembrance o TDoR nel quale con una simbolica fiaccolata si ricordano le donne trans uccise dall’odio transfobico.
Oggi il TDoR è preceduto dalla Transgender Awareness Week la settimana della consapevolezza transgender durante la quale attraverso diversi eventi e iniziative si sensibilizza contro lo stigma sociale e le discriminazioni trasfobiche.
Nel 2009 è nato il progetto The Trans Murder Monitoring(TMM) che da allora monitora il numero di omicidi di persone trans che vengono compiuti in tutto il mondo. Questa la mappa con la distribuzione dei casi di omicidio in tutto il mondo. In grigio le spie non monitorate.
I dati indicano come nel 2020
• 350 persone trans e di genere diverso sono state uccise, il 6% in più rispetto al 2019 in tutto il mondo;
• Il 98% erano donne trans;
• Il 62% delle persone trans assassinate erano lavoratrici del sesso;
• Negli Stati Uniti il 79% delle 28 persone trans assassinate erano nere.
• Delle 11 persone trans assassinate in Europa il 50% erano migranti;
• L’82% degli omicidi registrati è avvenuto in Centro e Sud America; 43% dei quali in Brasile;
• Il 38% degli omicidi è avvenuto per strada e il 22% nella propria residenza;
• L’età media delle persone assassinate è di 31 anni, la più giovane aveva 15 anni.
Il numero delle vittime accertate è un numero in difetto, se si considera che una buona parte degli omicidi che hanno come movente l’identità di genere, in molti Paesi del mondo non sono riconosciuti come tali.
Ricordiamo che le persone transgender hanno una identità di genere che differisce dal sesso di nascita. Non si tratta di una scelta, è un profondo sentire che va al di là dell’operazione chirurgica di riattribuzione del sesso e non ha niente a che vedere con l’orientamento sessuale che riguarda la sfera affettiva-sessuale. Riguarda l’identità.
Il 20 novembre vengono organizzate fiaccolate in tutto il mondo per commemorare le vittime dell’odio transfobico. In Italia ne viene organizzata una, o più di una, a Roma ma anche nei piccoli centri grazie alle associazioni LGBTQ+ sparse nel territorio.
Quest’anno, a causa dell’emergenza Covid le fiaccolate potrebbero svolgersi online.